mercoledì 9 gennaio 2013

Intervista a Paolo Saporiti - ELF Teatro, Milano - 19 ottobre 2012


Paolo Saporiti è un cantautore milanese che ha da poco pubblicato il suo quarto disco “L’ultimo ricatto” (leggi la recensione) . Un lavoro impreziosito dalle destrutturazioni di Xabier Iriondo, in un incrocio tra sperimentazione e bozzetti acustici. Io e James Cook lo abbiamo incontrato per Just Kids in occasione della presentazione all’Elf Teatro di Milano e ne abbiamo approfittato per una lunga conversazione che ha abbracciato parecchi temi…





Questa sera presenti il nuovo disco nella “tua” Milano. Come ti senti?

E’ strano, in realtà difficile, perché giochi in casa. C’è tanta gente che ti ha già visto e tanta che non ha assolutamente idea che tu esista. E’ difficile in questo momento della mia vita vedere che tante persone stanno capendo quello che faccio. E’ veramente la prima volta che succede. In questi anni ho visto alcune persone avvicinarsi ed entrare in contatto con me, ma mi sembra che ora ci sia uno scatto un po’ diverso. Sarà che io mi sento un po’ diverso, che il disco suona in un modo nuovo. Milano è il bacino di utenza. Secondo me, solo in un posto così, incontri artisti come Xabier (Iriondo), Cristiano Calcagnile… Alla fine solo Roma riesce ad essere un polo di attrazione alternativo, anche se questo è un po’ paradossale. Diciamo sempre che Milano è morta ed ha dei problemi enormi con la cultura, però alla fine è uno dei pochi luoghi in cui si riescono a fare certe cose. Io ho vissuto alcuni anni a Torino nel periodo dell’università e mi piaciuta tantissimo, probabilmente anche perché in quegli anni sei permeabilissimo, tutto “ti entra”. Torino è molto cosmopolita, così aperta dal punto di vista delle influenze, ricorda un po’ Parigi come città. Li ho creato le basi di come sono adesso, perché prima ero molto più chiuso. Ho vissuto anche ad Arona e penso che il mio disco senza Milano sarebbe un “disco bucolico”, un disco folk in cui esprimere il contatto con la natura. Personalmente faccio fatica a suonare in un posto con un impatto forte da un punto di vista naturale. Mi adeguo molto a quello che mi trasmette, sviluppando solo le note che si rapportano con essa. La “violenza di un disco” così come la intendo io, secondo me, nasce soltanto in un posto come Milano. Lì ti viene in mente di creare un’opposizione a qualche cosa di naturale e spontaneo. Cercavo proprio quello: qualcosa che si opponesse e tagliasse di traverso la mia idea di musica fine a sé stessa. Xabier è stata la persona perfetta per realizzare il mio progetto. Gli ho chiesto di fare molto di più, di devastare molto di più, di creare l’apocalisse. In realtà lui l’ha fatto con molta discrezione, rispettando tantissimo le mie richieste. Ci sono momenti in cui lui lascia molto spazio ed altri in cui va vicino all’invasione, ma senza farlo completamente. Arriva dalla tradizione e coniuga doti di sensibilità, conoscenza ed intelligenza molto elevate: per me, il punto di incontro, è lì.


Tu hai inciso soltanto un brano con testo in italiano nella tua carriera…

Per ora ho inciso e stampato soltanto “gelo”. Ho anche un altro pezzo in italiano, si intitola “Erica”. Lo porto con me da quando avevo 18 anni e prima o poi verrà pubblicato.

Parliamo del disco: il titolo è in italiano e i testi in inglese. Non temi che l’ascoltatore possa perdere il messaggio che vuoi trasmettere?

Si, non per niente ho messo le traduzioni. Però per come io usufruisco della musica il testo arriva dopo. Il mio, con la musica, è un rapporto emotivo sonoro, le parole mi arrivano in un secondo tempo, anche quando ascolto i grandi. In realtà do molta fiducia alla mia pancia. Se ascolto un grande come Jeff Buckley non ho bisogno di capire cosa mi sta dicendo, lo so già, ci “sono dentro”. Lui, palesemente, sta cavalcando un certo tipo di emozione e di sentire. Io credo in questo, nel mio modo di esprimere la musica cerco di rincorrere questo “metodo” e di abitarlo. Non avere il patema di fare arrivare il messaggio esattamente con quello che sto dicendo. In realtà però mi sto muovendo in quella direzione, i titoli in italiano vogliono dire che, pian pianino, mi piacerebbe iniziare a raccontarmi un po’ di più, quindi anche il linguaggio e la lingua diventano una forma espressiva interessante.

Il disco due di irrintzi inizia con la cover di “Reason to believe”, stravolta da Xabier Iriondo e interpretata dalla tua voce. Com’è andata?

Se lo ascolto mi vergogno un pochino perché ho cantato come mi ha chiesto lui, con un arrangiamento alla “suicide”, in modo molto lineare e abbastanza asettico. Risentirmi mi fa abbastanza effetto perché, nelle mie cose, cerco di mettere tanto, mentre qui ci sono pochi personalismi con la voce. Sono stato onoratissimo della proposta, il fatto che la scelta sia ricaduta su “reason to believe” è una cosa che mi tocca, partendo solo dal testo, senza addentrarmi nei risvolti musicali della canzone. Non c’è punto di incontro maggiore per chi, come noi, credendo in quello che fa, sta cercando di combattere una battaglia contro l’omologazione del mondo musicale italiano. Collaborare è il modo migliore di coltivare una “ragione in cui credere”. Il rapporto con Xabier mi emoziona molto, avere avuto l’opportunità di lavorare con lui è stato davvero bello. Come gli Afterhours, che fanno parte di un mondo musicale indipendente che io non conosco bene, che comunque stimo molto, perché in entrambi riconosco la capacità di mettersi “di traverso” rispetto al sentire comune.

In che modo hai conosciuto Xabier Iriondo e com’è nata l’idea della produzione del tuo disco? 

Ci siamo conosciuti al suo negozio (Sound metak) dove ho suonato due volte, da lì, poi, è nata la collaborazione per il mio ep “just let it happen”. Praticamente ci sono due brani dove lui è intervenuto. Questi pezzi mi hanno permesso di capire che lui era veramente la persona giusta, che mi avrebbe permesso di entrare e toccare elementi della sua musica. Per me è stato incredibile sia che lui volesse coinvolgermi in questo progetto, sia la modalità con cui abbiamo registrato il tutto.

Puoi leggere l'intervista completa a pag. 25 di Just Kids #2 (clicca qui per sfogliare la rivista)


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